I never doubt that a small group of thoughtful committed people can change the world: indeed it's the only thing that ever has!

Sunday, 6 March 2011

Gli acquedotti di Roma: come funzionanao

A cura del Prof. Arch. Renata Bizzotto
Con la collaborazione dell'Arch. Maria Letizia Mancuso
Gli acquedotti raccoglievano l'acqua da diverse sorgenti naturali situate a notevole distanza dalla città (la più lontana era quella dell'Anio Novus, 59 miglia o 87 km ad est di Roma).

L'"acqua" veniva scelta in conseguenza di molti fattori: la sua purezza, il suo sapore, la sua temperatura, le sue supposte proprietà medicamentose, attribuite ai sali minerali contenuti, e la posizione delle sue sorgenti, che dovevano essere visibilmente pure e limpide, inaccessibili all’inquinamento e prive di muschio e di canne. Si dovevano esaminare le condizioni generali delle bestie che ne consumavano. Se la fonte era nuova, i campioni dovevano essere analizzati in contenitori di bronzo di buona qualità per accertare la capacità di corrosione, l’effervescenza, la viscosità, i corpi estranei e il punto di ebollizione.

L'acqua si muoveva in direzione della città grazie a nessun'altra forza se non quella di gravità, cioè l'acquedotto agiva da continuo scivolo per tutta la distanza che separava le sorgenti dal punto del suo sbocco. Per ottenere tale risultato ciascuno di essi veniva progettato in modo tale che ogni singola parte del lungo tracciato corresse leggermente più in basso di quello precedente, e leggermente più in alto di quello successivo, in modo da ottenere una pendenza media calcolata attorno al 2%. Per tale ragione l'acqua doveva essere presa da sorgenti situate in collina, più in alto rispetto alla posizione di Roma, in particolare nei dintorni ad est della città, ed ogni punto del lungo percorso doveva essere attentamente pianificato, a seconda delle caratteristiche del terreno che incontrava.

Gli architetti romani erano abili in questa attività, per la quale disponevano di arnesi sofisticati: a parte la comune livella ad acqua (libra), simile a quella usata oggi dai falegnami, utilizzavano strumenti come il chorobates, e il dioptra. Prima di essere incanalata, l'acqua passava attraverso una o più vasche dette piscinae limariae, dove la velocità di flusso rallentava, consentendo al fango e alle altre particelle di depositarsi. Simili vasche si trovavano anche lungo il corso di molti acquedotti, per rimuovere qualsiasi impurità.

Lontano dall'area urbana gran parte del percorso degli acquedotti era sotterraneo: scavando pozzi verticali veniva raggiunta l'altezza richiesta per mantenere un percorso in discesa, e quindi il canale, o specus, veniva scavato attraverso la roccia.


Lo specus
Per via delle caratteristiche del terreno, alcune parti del dotto dovevano correre in superficie, lungo un fosso le cui pareti erano rinforzate con una palizzata. Lungo il percorso esterno dell'acquedotto ogni 240 piedi (71,28 m) una grossa pietra, detta cippo, segnalava la presenza del canale sotterraneo, e per evitare danni e inquinamento doveva essere rispettata una distanza di sicurezza di 15 piedi (1 piede romano = 29,7 cm) per ogni lato della struttura fuori città e di 5 piedi nel caso si trattasse di struttura sotterranea o di struttura all’interno della città.


Diagramma del cippo

Infatti tutti gli acquedotti erano pubblici, di proprietà del governo a beneficio dei cittadini, nonostante lo ius non prevedeva l’esproprio (si pensa che il forzato suicidio di Torquato nel 64 d.C. ed il sequestro delle sue tenute sia da addebitare alla costruzione degli Arcus Neroniani). Il loro danneggiamento o inquinamento veniva severamente punito, così come anche usare l'acqua per ville o terreni privati collegandosi illegalmente alle condutture pubbliche.

Rami privati in effetti esistevano, ma potevano utilizzare solo il surplus dell'acqua disponibile, e per fare ciò si pagava un tributo.

Quando il dotto raggiungeva una parete scoscesa o una gola, una possibile soluzione era di costruire un ponte, o viadotto, per attraversare il salto e raggiungere il lato opposto ad un'altezza leggermente inferiore: qui il percorso del canale ritornava sotterraneo.

Un'altro modo di superare tali formazioni naturali era di attraversarle con il "sifone invertito", una tecnica basata su un semplice principio fisico.

Dove il terreno si faceva piano, in vicinanza della città, il flusso veniva reso possibile costruendo le famose serie di arcate, alcune delle quali raggiungevano quasi 30 m di altezza.

Attraversavano la campagna per delle miglia, mantenendo il livello dell'acqua sufficientemente alto da poter raggiungere l'area urbana. Infatti era lungo queste grandiose strutture che la maggior parte degli acquedotti entrava a Roma. Più l'acqua viaggiava alta, più grande era il numero di quartieri che avrebbe potuto raggiungere.

Nella parte sommitale di questi viadotti, dove scorreva il canale, si trovavano delle aperture che consentivano la stessa opera di manutenzione richiesta dai dotti sotterranei.


Le tre "acque" - Condotti multipli sopra Porta Tiburtina e Porta Maggiore
Dovendo sfruttare quanto più possibile l'altezza naturale del territorio attraversato, diversi acquedotti arrivavano a Roma seguendo un percorso quasi identico; quindi due o persino tre "acque" potevano condividere lo stesso viadotto, scorrendo in canali separati a livelli differenti, secondo la rispettiva altezza che ciascuna di esse aveva sin lì raggiunto.

I principali sbocchi cittadini erano situati nei punti urbani più elevati. In particolare, molti acquedotti raggiungevano i confini di Roma da sud-est, in un sito chiamato Spes Vetus ("speranza vecchia") da un antico Tempio della Speranza che una volta vi sorgeva. L'acqua quindi entrava in città dal vicino colle Esquilino, da dove poteva essere distribuita a gran parte degli altri quartieri.

In alcuni casi acquedotti più "ricchi" ne aiutavano altri a mantenere un volume d'acqua sufficiente al rifornimento delle rispettive aree: per esempio, l'Aqua Claudia versava circa 1/8 della sua portata nelle A.Iulia e A.Tepula.

Non tutti gli acquedotti entravano a Roma passando su un viadotto: quello più antico, l'Aqua Appia, correva quasi completamente in sotterranea, così come pure quelli provenienti da nord-ovest, Aqua Alsietina e Aqua Traiana, che rifornivano l'VIII regio, Trans Tiberim (cioè Trastevere) dalla cima del colle Gianicolo.

In tali casi, entro l'area urbana venivano usati i lapides perterebrati: mattoni cavi speciali che si incastravano l'uno nell'altro formando un condotto impermeabile.

Il principale sbocco di un acquedotto aveva l'aspetto del castellum ("castello"), una struttura di dimensioni variabili che conteneva una o più vasche simili alle piscinae limariae, dove il flusso idrico rallentava e le ultime impurità sedimentavano. L'acqua veniva quindi versata all'esterno da un certo numero di bocchettoni a forma di calice.

Saturday, 5 March 2011

Gli acquedotti di Roma: costruzione

A cura del Prof. Arch. Renata Bizzotto
Con la collaborazione dell'Arch. Maria Letizia Mancuso
L'acqua, per una città, è stata da sempre una delle risorse più importanti, e l'antica Roma era famosa per la sua grande disponibilità di fontane pubbliche, terme, bacini artificiali e serbatoi, stadi per battaglie navali (naumachiae), canali d'irrigazione, ed altre strutture simili.

In un arco di tempo di oltre 500 anni furono realizzati per il fabbisogno urbano di Roma undici acquedotti maggiori, oltre ad un considerevole numero di diramazioni. É stato calcolato che la portata complessiva di tali acquedotti, messi insieme, superava di parecchio la quantità giornaliera di acqua su cui oggi può contare la città moderna.

Tale abbondanza, che non fu mai raggiunta in nessun'altra parte del mondo, valse a Roma il nome di regina aquarum, cioè regina delle acque. É interessante notare che i Romani non davano un nome all'acquedotto in sé, ma all'acqua che portava, per cui la gran parte di essi veniva chiamata aqua (Aqua Appia, Aqua Marcia, Aqua Iulia, ecc.), seguito spesso dal nome del regnante o del funzionario che li avevano fatti realizzare o avevano presieduto alla loro costruzione.

Sin dai tempi in cui Roma fu fondata, gli abitanti poterono utilizzare l'acqua del Tevere, che scorreva lungo il confine urbano occidentale (oggi taglia la città moderna in due metà), e del suo principale affluente, l'Aniene, che incontra il fiume maggiore circa 4 km a nord delle più antiche mura cittadine, in una località ora circondata da nuovi quartieri.

Durante l'età dei re, e per un certo periodo dell'età repubblicana, la popolazione fece fronte alle proprie necessità raccogliendo l'acqua direttamente da questi fiumi, da canali, e da un certo numero di fonti minori quali pozzi e cisterne d'acqua piovana.
Nel IV secolo a.C. le dimensioni della città e la crescita della popolazione, compresi i molti immigranti, i mercanti stranieri e gli schiavi, richiesero una disponibilità maggiore.

Infatti nell'anno 312 il censore Appio Claudio fece costruire il primo acquedotto che raccoglieva l'acqua da sorgenti localizzate fra le 7 e le 8 miglia ad est della città, sebbene la lunghezza complessiva del suo percorso misurasse non meno di 11 miglia.
La realizzazione degli acquedotti seguì ad una media di uno ogni 60 anni circa, ma nel 52 d.C. due di essi vennero costruiti quasi allo stesso tempo.
La lunghezza degli acquedotti veniva espressa in passus ("passi"), una misura corrispondente a 1,482 m.

In modo più approssimato, erano misurati in milia passus, cioè miglia romane, il cui effettivo significato era "migliaia di passi", pari a 1,482 km.
La portata di ciascun acquedotto era calcolata in quinariae. Gli studiosi hanno calcolato 1 quinaria equivaleva a 0,48 litri al secondo.

Il più potente degli undici acquedotti, l'Anio Novus, portava 4.738 quinariae, il che significava una provvigione di quasi 200 milioni di litri al giorno!
La rete idrica di Roma era sotto il controllo di un alto ufficiale il cui titolo era curator aquae, cioè "curatore delle acque".

É grazie ad uno di questi curatori, Sesto Giulio Frontino (tardo I secolo dC), il quale scrisse un minuzioso saggio su questo argomento, che oggi si conoscono gran parte dei dati relativi all'amministrazione, le caratteristiche e il percorso degli acquedotti romani.
Diverse piante di Roma rinascimentali e barocche, invece, mostrano vedute a volo d'uccello tridimensionali delle molte parti degli acquedotti ancora esistenti fra il XV e il XVII secolo.

Grazie a queste fonti e agli scavi archeologici è stato possibile disegnare il percorso di molti acquedotti romani antichi, sebbene a causa dello sviluppo della città nel corso dei secoli assai poco di queste maestose strutture è rimasto in piedi.

Thursday, 3 March 2011

Roma e l'acqua: proposte didattiche

Roma e l'acqua hanno un rapporto naturalmente intimo. Il biondo Tevere, gli acquedotti, le fontane maestose e i semplici "nasoni" sono la continua testimonianza di questo filo diretto che lega la città e i romani all'acqua.
Queste proposte didattiche aiutano a capire meglio questa relazione e insegnano a conoscere meglio l'acqua, fonte di vita.

Il materiale presente nel sito della Casa dell'architettura è la parte elaborata dall'Ordine di Roma all'interno di un progetto di educazione ambientale in seguito al Protocollo d'Intesa tra il MIUR Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della ricerca (attuale Ministero dell'Istruzione), il CNAPPC (Consiglio Nazionale degli Architetti Paesaggisti Pianificatori) e gli Ordini Professionali delle provincie di Fermo, Napoli, Roma, Sciacca, Treviso e Varese.

Casa dell'architettura - proposte didattiche - acqua

Wednesday, 2 March 2011

Water demand will 'outstrip supply by 40% within 20 years' due to climate change and population growth


Water demand in many countries will exceed supply by 40 per cent within 20 years due to the combined threat of climate change and population growth, scientists have warned.
A new way of thinking about water is needed as looming shortages threaten communities, agriculture and industry, experts said.
In the next two decades, a third of humanity will have only half the water required to meet basic needs, said researchers.

Agriculture, which soaks up 71 per cent of water supplies, is also likely to suffer, affecting food production.

Filling the global water gap by supply measures alone would cost an estimated £124billion per year, a meeting in Canada was told.
But this could be cut to between £31billion and £37billion by an approach which both raised supply and lowered demand, according to leading water economist Dr Margaret Catley-Carlson.


Read more: www.dailymail.co.uk

Water, wisdom and Wasmo: a learning journey

Old women are contributing their lifelong savings: can there be any bigger proof of community participation?

by ANIL K GUPTA

I recently met a number of village community leaders and innovators who had achieved remarkable results in collaboration with the Water and Sanitation Management Organisation in Gujarat in dealing with the problems of drinking water and sanitation.

If through transparency, honesty and self-critical attitude, public officials can achieve so much in this programme, then lessons need to be learned so that other programmes can also benefit from similar processes. It is a pity that NREGA funds cannot be transferred to Wasmo for implementation: we could have avoided so much corruption and misuse and ensured much higher productivity through genuine community participation.

Let me recount some grassroots innovations which made us aware of the range of creative responses communities have shown in dealing with variable topographies, water level, pressure, distribution requirements and so on.

Where else will you see an old widow, Doodhiben in Bhavnagar district, contributing her lifelong savings for the creation of a common water supply facility, or another lady, Ambaben, donating for a similar purpose the amount she had saved for her last rites?management

When it was realised by some farmers that the guidelines provided for making a chamber for controlling water supply underground invariably lead to water collection which led to dirtiness and mosquito breeding, they decided to make a chamber above the ground. The programme managers did not have a problem with that. In another village, the source of water and the pump were eight km away from the village, and going there every time power came would have been tiresome. Why not use the mobile phone switch on/off system along with a status report on whether power was available or not, and if so in how many phases? The whole village could send an SMS to that water supply phone and get to know when the water would be supplied. All automatic.

We had a similar innovation in the National Innovation Foundation (NIF) database but this one was surely meeting local needs well and was developed by local people through their own ingenuity. In another place, the local community developed water supply points ensuring that every household in every locality got water at the same pressure. Even in this, to calibrate the pressure, they would keep a regulatory point which was sealed after testing it for 15 days. Nobody could change the pressure or add a water point or cheat the system. The additional cost of this system was over Rs 1 lakh, but the equity does not come cheap.

I wish various developmental programmes study the way people have decided to pay more amount (as much as Rs 600 per household per year or Rs 14 per capita per month in some villages) for water. Let us find out how much we pay in cities, how many housing societies deliver water at the same pressure to everybody.

There are many more innovative examples of water conservation, distribution and utilisation which we are studying to draw lessons for participatory development. It is not for nothing that the Rajasthan assembly speaker came along with MLAs and chief water supply engineers to study how Gujarat had done this miracle.

That also shows when best practices will be learned across party political lines, nothing will come in the way of overcoming the shame of this nation, which cannot provide safe drinking water to thousands of villages after so many years of independence. Gujarat will have solved this problem soon and for good.

But on the sanitation front, there is still a long way to go. While thousands of toilets have been built, there is still a need to persuade people to understand that microbial load in water in many places is very high because of contamination of catchments. We need to create a consciousness that every drop of water counts. Not one tap should leak, not one drop should drip. Every village community has to clean the catchments from where water drains into the water body before rains. And reverse osmosis (RO) water needs to be re-mineralised, otherwise there will be a major micro-nutrient crisis and public health problem.

GOVERNANCE NOW 28-2-2011

Tuesday, 1 March 2011

Saving the Bath Water Too


Would you water your garden with what goes down your shower drain or out your washing machine? In Tucson, Arizona, and an increasing number of water-starved western cities, more and more residents are saying yes.

If you've never contemplated what happens to the water that gets you or your clothes clean, you're far from alone. But for cities and environmentalists trying to head off the growing threat of drought and rising water costs, so-called graywater — differentiating it from the "black water" that goes down the toilet — is getting a lot more attention. A decade ago, Tucson, which has about a million residents in its metro area and is a liberal and environmentally conscious oasis in a red state, convinced Arizona legislators to make it legal for homeowners to irrigate their trees and plants with the water that was going down their drains or out of their washing machines without a permit. Now, graywater use is not only legal in Tucson, and indeed the rest of Arizona, but promoted, and, in some cases, required. In 2007, the state rolled out a tax credit of up to $1,000 for homeowners who install graywater systems. Last year, a law — believed to be the country's first — went into effect in Tucson that requires builders to include graywater plumbing in new construction.

"If there are higher stages of drought, there will be more watering restrictions," says Ilene Grossman, who is the city water department's conservation program manager. "We're not at the critical stage right now, but we are planning for that."

There's not good data on how close our nation's cities are to a water crisis, or how many people are using graywater. But the picture is this: Climate change, the cost of water treatment and rising populations will eventually, if nothing is done, run some US cities, particularly western ones, dry. Tucson, for instance, is already in what's called stage one drought, which means it's too dry but not yet critical. If a worse drought were to occur, there would be restrictions on gardening. Outside of desert areas like Tucson, there's issues of climate change and the cost of building sewage treatment plants to accommodate an expanding population. "It's crazy that we do so much to get water, and then it gets dumped down the drain," says Laura Allen, a founding member of Greywater Action, who set up her own Oakland, California home's graywater system illegally and has advocated for California's recent rule changes.

A number of city and state legislatures are coming to the same conclusion. Depending on the climate and the size of the yard, graywater reuse can lower a household's total consumption by as much as 40%. In November, Pacific Institute, which is an influencing water conservation research group, said that graywater reuse was an important strategy in improving a city's water resiliency against climate change. At a time of tight budgets, increased graywater usage could reduce the need for cities to spend money on costly new water supply projects. "It's almost at the tipping point where there are more states in the west that have graywater regulations than those that do," says Val Little, director of the Water Conservation Alliance for Southern Arizona (Water CASA).
Time 25-2-2011